serie archètopics

L'imprescindibilità dei luoghi

Di pasquale ciardiello

Una latitudine, la morfologia di un determinato territorio, i layout distributivi di uno spazio artificiale, tutte quelle costanti ambientali che persistono sia in micro che in macro scala, influenzano incisivamente il nostro approccio con la realtà.

Il traguardo raggiunto fino ad ora in termini di evoluzione umana la si deve pertanto anche allo spazio antropizzato che per il suo carattere non mutevole si fa carico di scelte, sagge o sbagliate che siano, nell’interpretare e cogliere le esigenze di una popolazione e il suo territorio di riferimento. L’errore storico che è stato commesso è di aver valutato lo spazio unicamente come area vuota da riempire, ritenendo necessario interrogare, nel processo di modificazione di uno spazio in seno alla disciplina architettonica, soltanto il senso della vista (definito unanimemente come oculocentrismo), convinzione causata da una scarsa conoscenza in più campi, sia quello afferente alle neuroscienze, sia quello propriamente tecnologico. Per tali limitazioni è possibile appurare che l’architettura, concepita nella quasi totalità della storia umana, imponeva un rigido guscio costituito da facciate piene, perlopiù piatte, e un interno poco permeabile, minuziosamente partizionato in celle e schiacciato da un perimetro murario rigorosamente geometrico, rigido e poco svincolato. L’uomo, per scaturire un piacere visivo e di conseguenza invogliare a vivere uno spazio è ricorso a una dote comune solo all’essere umano, quella di modificare e scandire lo spazio plasmando la materia, producendo fin dall’antichità degli artefatti, poi catalogati in un insieme di ordini e stili che hanno idealizzato dei modi di concepire e fare architettura. Tale disciplina, storicamente contemplava come prioritarie le facciate, degli insiemi ordinati, armonici come spartiti musicali, che si adagiano e avvolgono cubature tanto massicce da apparire, nel caso più esplicativo delle architetture religiose, come grotte artificiali finemente intagliate. Difatti, in assenza di un apparato esterno decorativo e/o funzionale che funge da facciata, si può solo rientrare nel merito di architetture spontanee, in gergo “architettura senza architetti”.

In epoca attuale, per mutate necessità e per nuove conoscenze tecnologiche acquisite, la metodologia progettuale ha subito una trasformazione radicale, i cui antefatti sono da attribuire alla nascita del movimento moderno che, sulla scia che vedeva la funzione come vera prerogativa del bello, idealizzò l’architettura come «gioco sapiente, corretto e magnifico dei volumi raggruppati sotto la luce» (cfr. Le Corbusier) ponendosi come approccio basato su una modularità intrinseca, discostandosi da ciò che aveva costituito, tempo addietro, un vero e proprio ermetismo architettonico. In brevissimo tempo è avvenuto un passaggio drastico, da una visione bidimensionale della progettazione (involucro+invaso) a una tridimensionale (unicum spaziale) comportando una crisi in cui l’uomo è disorientato, poiché travolto da un senso di inadeguatezza nei confronti della tecnica, non più necessaria ad assecondare esigenze estetiche quanto piuttosto quelle strettamente funzionali. Ciò comporta l’uomo a interrogarsi costantemente sulle nuove esigenze imposte dalla contemporaneità, che vanno aldilà del punto di vista estetico delle cose, visione che deve giocoforza ammettere che non esiste solo un’architettura figurata ma anche sensoriale. Tale dicotomia, che vanifica ancora di più la necessità di un qualsiasi apporto decorativo, comporta inevitabilmente un senso di smarrimento, irrimediabilmente dovuto al crollo di una serie di certezze, in passato incontrovertibili, causando uno svuotamento non solo per l’architettura contemporanea, dall’aspetto sempre più esile ed effimero, ma anche in senso strettamente umano: in breve tempo si è passati da un modus vivendi che contemplava la fruizione di luoghi monumentali, denotati da un gigantismo che offriva riparo e conforto dalle avversità esterne, a un enorme vuoto che invece si rifugia in noi, quello di matrice sociale che sortisce gli effetti della post-modernità come la globalizzazione e la logica asfissiante dei consumi, che annullano di fatto un equilibrio ancestrale di cui l’uomo si è sempre nutrito: la singolarità.

Tale assunto è utile a disvelare il paradosso a cui oggigiorno si avvale il progettista per ideare e formare interventi di scala architettonica e urbana. Da un’analisi più approfondita si ricava che dalla scissione semantica del termine “architettura” si può individuare il binomio archétéchne: nel primo si riscontra, per l’appunto, la singolarità riconducibile alla categoria degli indominabili, la seconda è invece rintracciabile nell’arbitrarietà e, in maniera opposta all’altra, si rifà al mondo dei dominabili. Con queste indicazioni Renato Rizzi (architetto, professore ordinario presso la Iuav di Venezia) condanna aspramente un mondo sempre più lobotomizzato sulla tecnica tramite la quale si ricerca, con ostinata autoreferenzialità, di dominare l’indominabile. Il rapporto con l’arché differisce, poiché non tenta di sopraffare la dimensione degli universali ma al contrario cerca di commisurarsi con esso e stabilire un reciproco accordo, un compromesso. Dunque è più che mai indispensabile riprendere quel legame con l’arché bruscamente interrotto dall’architettura contemporanea che esaspera il tema dello standard, del dimensionamento pretenzioso, senza accorgersi dell’ambiente naturale e artificiale con il quale ci si rapporta.

Fonti bibliografiche:

Non siamo i dominatori del tempo. Dell’architettura e di (un) teatro – Intervista a Renato Rizzi.
http://www.paneacquaculture.net/2020/04/20/non-siamo-i-dominatori-del-tempo-dellarchitettura-e-di-un-teatro-intervista-a-renato-rizzi/

Ultima modifica: 13 Luglio 2021

2023 Archètopia

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“Archètopia” è un sito web personale no-profit redatto a scopo divulgativo. Nasce dall’esigenza spontanea e impellente di condividere delle idee, quelle che necessitano di uno spazio idoneo per esprimersi e infondere appieno i nobili propositi, una condizione non più possibile nello spazio sempre più opprimente e mercificante dei social network.

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